Ore difficili, in Francia, per i brand del fast fashion come Shein e Temu. Il disegno di legge numero 2029 approvato nei giorni scorsi dall’Assemblea Nazionale propone infatti una tassa che aumenterebbe il costo di ogni capo fino a 10 euro. Il testo si compone di soli tre articoli, ma con un peso specifico davvero notevole. Il secondo, in particolare, è quello che introduce la tassa basata sul principio di EPR [Extendend Product Responsibility], che estende la responsabilità del produttore, appunto, all’intero ciclo di vita del prodotto, prendendo in considerazione anche gli impatti generati dalla sua produzione e dal suo smaltimento. Il sovrapprezzo su ogni capo, in buona sostanza, dipenderà dall’impatto ambientale del capo stesso, calcolato a partire da una stima delle emissioni di carbonio: maggiore l’impatto, maggiore la tassa. Il disegno di legge, presentato dalla parlamentare Anne-Cécile Violando, è atteso ora al voto del Senato. L’obiettivo è palese, anche perché si inserisce in un contesto coerente di iniziative tese da una parte a proteggere l’ambiente dagli effetti tristemente noti dell’over production, dall’altra a tutelare il settore tessile e moda francese dalla pressione dei grandi gruppi stranieri. Citiamo, fra i vari provvedimenti, la legge AGEC [Loi Anti-Gaspillage pour une Economie Circulaire] che promuove l’economia circolare e la riduzione dei rifiuti, ma anche la fondamentale CSDDD [Corporate Sustainability Due Diligence Directive] sulla quale il 15 marzo il Consiglio UE ha finalmente raggiunto un accordo.

Il nemico è il prezzo

In pochi anni, l’avvento del fast fashion – e, più recentemente, dell’ultra fast fashion – ha letteralmente drogato il mercato con l’immissione massiccia capi a basso costo. Attratti dal prezzo, i consumatori hanno alimentato una spirale anomala di produzione in cui sono finiti anche i brand del prêt à porter, spinti a proporre sempre più collezioni a ritmi sempre più forsennati. Compriamo sempre più vestiti, insomma, perché costano pochissimo e allora pazienza se la qualità è scadente: li indossiamo una stagione e poi via nel cassonetto, tanto il mercato offre infinite alternative a prezzi irrisori. Se una maglietta costa 5 euro, però, c’è qualcosa a monte che non va e questo, in fondo, lo sappiamo tutti: lavoratori sottopagati, inosservanza delle norme più elementari di sicurezza, uso di sostanze pericolose, ecc. ecc. Il più delle volte, però, ci passiamo sopra, conquistati dalla convenienza imbattibile dell’occasione. Il disegno di legge francese muove esattamente da questa consapevolezza. Il problema è il prezzo? Alziamolo per legge, tassando chi offre “produzione tessile a basso costo, spesso remota e delocalizzata”. Sul banco degli imputati ci sono brand come Shein e Temu che immettono sul mercato oltre 6mila prodotti nuovi ogni giorno e che il testo cita esplicitamente come il modello da combattere. La proposta votata dall’Assemblea francese si compone di altri due articoli. Il terzo e ultimo articolo limita la pubblicità per gli articoli di fast e ultra fast fashion. Il primo impone invece a tutti gli e-commerce che li vendono di inserire accanto al prezzo un avviso sul loro impatto ambientale, oltre alla pubblicazione di messaggi volti a incoraggiare buone pratiche di economia circolare come il riuso e la riparazione. A questo sarebbero destinati peraltro gli introiti della tassa – a finanziare, cioè, lo sviluppo di soluzioni innovative per la raccolta e il riciclo dei rifiuti tessili.

La posizione degli addetti ai lavori

Sul fronte della durata e della riparabilità dei prodotti, si sono espressi gli attivisti dell’European Environmental Bureau (EEB), che plaudono la direttiva come forma di contrasto al greenwashing, ma accusano l’UE di scarsa incisività sul tema dell’obsolescenza precoce, la pratica commerciale che limita intenzionalmente la vita di un prodotto per favorirne la sostituzione. Secondo Biljana Borzan, relatrice del provvedimento durante l’esame all’Europarlamento e nei negoziati con il Consiglio, la direttiva sul greenwashing rappresenta, ciò nonostante, una vittoria per tutti. “Ci discosteremo dalla cultura dell’usa e getta, renderemo il marketing più trasparente e combatteremo l’obsolescenza prematura dei beni”, ha detto. “Le persone potranno acquistare prodotti più durevoli, riparabili e sostenibili grazie a etichette e pubblicità affidabili. Cosa ancora più importante, le aziende non potranno più ingannare le persone dicendo che le bottiglie di plastica vanno bene perché l’azienda ha piantato alberi da qualche parte o dire che qualcosa è sostenibile senza spiegare come e perché”. Gli esperti di moda sostenibile sono i primi a dispiacersi delle difficoltà di reperire informazioni utili sui contenuti di sostenibilità dei prodotti. Pensiamo ai vestiti o agli accessori moda: secondo Francesca Rulli, CEO di Process Factory e ideatrice del sistema 4sustainability per la transizione sostenibile del fashion & luxury, se va bene il cartellino riporta qualche marchio di certificazione che il consumatore medio non conosce e che non lo aiuta dunque a cogliere la differenza fra un capo e un altro. “Più spesso – aggiunge – troviamo affermazioni vaghe o equivoche o addirittura nulla. Io stessa entro in crisi, quando faccio acquisti, perché mi mancano gli elementi per scegliere li capi con le caratteristiche ambientali e sociali che vorrei. Chi lo ha prodotto e dove? Come faccio a sapere se quello che c’è scritto in etichetta è verificato? Oggi non posso che affidarmi alla reputazione del brand o alle informazioni di tipo tecnico pubblicate online… Faccio domande, ma rimango spesso delusa. E l’assurdo è che certi capi avrebbero requisiti più che soddisfacenti di sostenibilità: peccato che i dati a supporto siano indisponibili”.

Una tassa "buona"

Il Green Deal europeo ha l’ambizione di portare gradualmente i paesi UE alla decarbonizzazione e a una significativa riduzione d’impatto dei prodotti di consumo attraverso la gestione del loro intero ciclo di vita. “Per allungare la vita dei prodotti – spiega Francesca Rullile strade sono due: utilizzare materiali e processi a minor impatto oppure riciclare i prodotti più volte per ridurre gli impatti sulle risorse. In questo solco si inserisce la EPR su cui è basata la proposta francese di tassare i prodotti e i produttori più impattanti. Nel mirino ci sono logicamente i prodotti del fast e ultra fast fashion, che durano poco e non si possono riciclare a causa dei materiali di cui sono fatti e delle sostanze chimiche utilizzate per realizzarli. Personalmente, non amo i sistemi sanzionatori. Credo di più nell’educazione e nell’evoluzione del pensiero e dei comportamenti. Ahimè, questo è un processo che richiede tempo e di tempo non ne abbiamo... Bene, quindi, che oltre alla strada maestra della cultura se ne percorrano altre. Rispetto alle iniziative di fonte europea, il disegno di legge francese 2029 ha il pregio di tassare chi produce senza tutele per l’ambiente e le persone e vende poi i suoi prodotti a costi bassissimi in paesi dove c’è invece chi investe in percorsi seri di sostenibilità. Nessuna tassa, credo, potrà mai compensare la distanza tra i due modelli produttivi, ma l’iniziativa francese è comunque ineccepibile sul piano etico e della sostanza. Più che una sanzione contro chi contribuisce nel peggiore dei modi all’over production, un riconoscimento a chi produce con materiali da fonti sicure e processi a ridotto impatto ambientale, assicurando alle persone condizioni di lavoro adeguante e stipendi dignitosi”.

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