Il Global Compact delle Nazioni Unite definisce la tracciabilità come la capacità di identificare e raccontare la storia, la distribuzione, l’ubicazione e l’applicazione di prodotti, componenti e materiali per garantire l’affidabilità delle dichiarazioni di sostenibilità negli ambiti dei diritti umani, della salute e della sicurezza sul lavoro, dell’ambiente e dell’anticorruzione.
In parole più semplici, la tracciabilità è ciò che consente al consumatore di conoscere le caratteristiche di un prodotto – inclusa l’osservanza delle leggi in materia ambientale e sociale da parte delle aziende produttrici – e di fare poi una scelta di acquisto consapevole. Si può sostanziare in etichette che descrivono la genesi di un vestito, per esempio, dalla selezione della materia prima al suo arrivo in negozio, attraverso un sistema di identificazioni registrate lungo l’intera filiera.

I vantaggi sono evidenti anche per i brand e le imprese del settore moda, per i quali tracciare i processi interni e monitorare i fornitori, coinvolgendoli nella trasformazione del proprio modello business in senso sostenibile, può rivelarsi cruciale.
Scegliere la tracciabilità, per un brand, significa poter verificare la conformità di ogni fase della produzione alle normative nazionali e agli standard internazionali; significa migliorare la propria reputazione, rafforzare le relazioni con gli stakeholder e risultare più affidabili; significa gestire con efficienza la catena di fornitura e diminuire l’impatto dei rischi derivanti dalla complessità, dalla frammentazione e dalla dislocazione della filiera produttiva.

Gli ostacoli alla trasparenza

Elemento implicito della tracciabilità è la trasparenza e cioè la scelta di rendere disponibili le informazioni sul prodotto e sui processi necessari per realizzarlo a tutti gli attori di cui sopra, avendo cura che siano chiare, accessibili, comprensibili e confrontabili.
La sfida è impegnativa per diversi motivi. Il primo l’abbiamo già introdotto e consiste nella diffusa e crescente frammentazione e complessità della rete produttiva, fatta di impianti e operatori dislocati in più parti del mondo e soggetti quindi a regole e standard diversi a livello regionale, nazionale e internazionale.

Un altro ostacolo è rappresentato dalle barriere tecnologiche e interessa soprattutto gli anelli della filiera che operano in paesi meno avanzati. Ma la tecnologia necessaria per la raccolta e lo scambio di dati e informazioni costa, anche laddove è accessibile, anche per chi sulla carta può permettersela.
Ultimo, ma non per importanza, è poi il tema della privacy e della sicurezza dei dati, soprattutto quelli che, avendo un importante valore strategico per l’azienda, sono sottoposti a tutele della proprietà intellettuale.

La pagella ai brand di Fashion Revolution

Qual è la situazione attuale? Come si comportano le aziende della moda quanto a trasparenza e tracciabilità? Ogni anno, Fashion Revolution valuta gli sforzi dei brand in questo senso.
Il Fashion Transparency Index, in particolare, li misura su cinque dimensioni (Policy & Commitments, Governance, Tracciabilità, Audit, Spotlight) e pondera i risultati per ottenere un punteggio totale. Ebbene, questo punteggio ha visto nel 2020 un aumento di due punti percentuale rispetto all’anno prima, dal 21% al 23%.

Il rating di tracciabilità

Per quanto riguarda la tracciabilità, più nello specifico, il punteggio medio è stato solo del 16%, a fronte di un 52% registrato a livello di politiche e di impegni aziendali. Letti insieme, i due punteggi suggeriscono l’esistenza di un divario ancora troppo marcato fra risultati e buone intenzioni.
Preso singolarmente, invece, il basso dato sulla tracciabilità si spiega con il fatto che meno della metà dei 250 marchi intervistati rivela informazioni sulle aziende della propria catena di fornitura. Solo il 40% pubblica le liste di fornitori di primo livello (Tier 1) e ancora meno – appena il 24% – dichiara quali e quanti impianti di trasformazione includono le fabbriche di lavorazione a umido. Solo il 7%, poi, nomina i fornitori di materie prime.

Il rating per le performance ambientali

E veniamo al capitolo ambiente del report di Fashion Revolution. Il 78% dei brand intervistati pubblica proprie politiche di sostenibilità sull’uso delle risorse energetiche e sul contenimento delle emissioni di CO2. Solo il 16%, tuttavia, dà informazioni specifiche sulle emissioni di gas a effetto serra prodotte lungo la supply chain.

Stesso trend anche per la gestione delle risorse idriche: il 52% dei brand dà evidenza delle sue politiche per un utilizzo più consapevole del’acqua, che nel 42% dei casi sarebbero estese anche ai propri fornitori. Solo il 31%, però, calcola l’impatto idrico dei propri stabilimenti e appena il 14% pubblica annualmente la water footprint considerando anche le parti di lavorazione a umido della propria catena di fornitura.

Quanto ai rifiuti generati durante le fasi di produzione, il riscontro è sconfortante: solo il 4% – 11 brand su 250 – ha divulgato i dati e solo il 3% i volumi dei prodotti deliberatamente distrutti.

In chiave sociale, solo il 6% dei brand dichiara una politica di pagamento dei fornitori entro 60 giorni. L’11% afferma di garantire i costi del lavoro senza rinegoziazione del prezzo e il 23% un salario di sussistenza per i lavoratori della supply chain.

L’indagine di Planet Tracker

Altro report recente è quello della think tank finanziaria senza scopo di lucro Planet Tracker, che offre sul tema alcuni buoni spunti di riflessione.
Lo studio si sofferma sul rischio idrico a cui sono esposte le aziende della filiera moda – quelle con lavorazioni a umido, in particolare – e su come tale rischio impatti a sua volta sugli investitori. La parte più interessante, a nostro avviso, è però quella che riguarda i brand, le iniziative che dovrebbero intraprendere per una gestione della risorsa idrica più sostenibile e, quindi, orientata alla tracciabilità.

Quella di Planet Tracker è una vera e propria call to action nei confronti dei brand, che hanno il potere economico e comunicativo per spingere la trasformazione dei modelli di business verso la sostenibilità.
I brand, si legge nel report, dovrebbero estendere le informazioni sulla catena di fornitura oltre i fornitori di Tier 1, in modo che investitori, finanziatori e clienti possano comprendere la reale entità dei costi e dei rischi ambientali associati alla produzione.
Dovrebbero assumersi maggiori responsabilità per le loro catene di fornitura, attraverso comportamenti di acquisto coerenti e un approccio di due diligence basata sul rischio lungo tutta la filiera.​
Infine, dovrebbero destinare parte delle loro considerevoli risorse finanziarie a sostenere i fornitori per investimenti in nuove attrezzature e tecniche innovative. Mantenendo gli stessi prezzi al dettaglio, una riduzione dello 0,5% del margine operativo netto del brand (EBIT) consentirebbe di recuperare circa 220 milioni di USD per la supply chain.

Cosa fare: voce agli esperti

I numeri – e le interpretazioni dei numeri – mostrano un quadro piuttosto chiaro. È evidente, anzitutto, che non si può parlare di vera tracciabilità se ci si ferma al primo anello della catena di fornitura. “Possiamo leggere i dati forniti da Fashion Revolution e Planet Tracker, tra gli altri, come un buon inizio – commenta Francesca Rulli, CEO e Founder di Process Factory/4sustainability®ma c’è ancora tanta strada da fare. La sostenibilità e la tracciabilità che ne è alla base implicano infatti il coinvolgimento della filiera produttiva nella sua interezza, attraverso know how, metodologie e strumenti a supporto.

Le opzioni disponibili sono ancora poche… Ecco perché abbiamo deciso di inserire nella nostra roadmap per la sostenibilità un’iniziativa concepita proprio per il monitoraggio dei fornitori e la raccolta dei dati necessari per la loro valutazione. Questa iniziativa si chiama Trace 4sustainability® e configura un percorso strutturato per misurare i propri fornitori livello per livello, selezionando quelli a minor impatto ambientale e sociale. Il traguardo finale è la costruzione di un sistema premiante che distribuisca il valore sulle filiere più meritevoli, arrivando a comunicare al mercato la trasparenza di ogni scelta”.

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