Come sta cambiando la moda e quale ruolo gioca la sostenibilità nei tempi e nei modi di questo cambiamento?
Un recente articolo di Cecilia Dardana per Life Gate ha provato a guardare nel futuro di uno dei settori tradizionalmente più creativi dell’industria globale, quello del fashion appunto, chiamato a sciogliere tutta una serie di contraddizioni che il Covid ha aggravato e svelato al mondo. Il quadro che ne emerge è un inevitabile alternarsi di luci e ombre, dove la luce più forte, quella che sulla carta dovrebbe incoraggiare l’ottimismo, sembra la diffusa presa di coscienza che urge cambiare registro, perché la logica del “continuare a fare come abbiamo sempre fatto” non funziona più.

Senti chi parla

Sulle tante questioni trattate dalla giornalista, abbiamo chiamato ad esprimersi i componenti di una squadra molto speciale, che di sostenibilità si occupa ogni giorno a fianco dei brand e dentro le aziende della filiera. Parliamo del team 4sustainability®, il marchio che garantisce l’autenticità del percorso verso la sostenibilità di oltre 160 realtà del settore moda, che diventano 2000 se consideriamo la rete delle imprese coinvolte a monte.

Ogni riflessione si porta dietro l’esperienza di chi la esprime e le diverse competenze tecniche, commerciali e comunicative messe in campo nel lavoro quotidiano di supporto alle aziende che hanno scelto la sostenibilità come via strategica per lo sviluppo. Il comune denominatore è la passione per un impegno di grande attualità che non ammette improvvisazioni e, ciò che più importante, le sue implicazioni per l’operatività dell’impresa.

Chiara Ferrero

“Affrontare un tema tanto decisivo come la sostenibilità richiede prima di tutto di essere informati – afferma Chiara Ferrero – e l’articolo di Life Gate ha il merito di offrire uno spaccato piuttosto completo della situazione, specie per chi si accosta alla materia da non addetto ai lavori. Si parla di trasparenza e tracciabilità – alla base di ogni progetto concreto di sostenibilità – e di aspetti sociali spesso trascurati a discapito di quelli ambientali. Ho trovato particolarmente interessante il focus sui comportamenti d’acquisto, che stanno cambiando in positivo: se nel 2016 solo il 7% di persone dichiarava di acquistare capi di abbigliamento naturali o sostenibili, nel 2018 eravamo già all’11% e quest’anno siamo al 16%. A dettare il ritmo sarebbero le generazioni più giovani, in particolare i ragazzi nati dopo il 1996”.

Giovanni Graziani

“Sono numeri interessanti – commenta Giovanni Graziani – ma ancora troppo piccoli in termini assoluti. Stessa considerazione per la conversione delle imprese alla sostenibilità, che resta al momento limitata a due filoni: le piccole start up che fanno della sostenibilità il loro core business, ma che in termini di volumi incidono pochissimo, e le grandi realtà, che per lo più cercano di applicare la sostenibilità al loro modello, ma senza trasformarlo totalmente”.

Lucio Miglionico

Secondo Lucio Miglionico, la sostenibilità dovrebbe essere per i brand una scelta strategica, ma le realtà virtuose sono ancora poche. “Molti marchi sono più interessati a fare del buon storytelling che a lavorare per calcolare e ridurre gli impatti della produzione. Se chiedi alle persone di scegliere fra due prodotti apparentemente identici e quello sostenibile costa 10 e l’altro 7, è facile prevedere come andranno le cose. Chi vive nella filiera sa che i brand si comportano con i fornitori spesso allo stesso modo, perché a contare di più sono ancora i margini, almeno per molti. La rivoluzione vera si gioca sul campo della cultura e qui siamo ancora indietro. Io dico che sarebbe bene cominciare a insegnare ai nostri figli una cultura nuova, basata sul conoscere bene i luoghi in cui viviamo, affezionarsi a quello che acquistiamo perché c’è dietro un valore, prendersi cura delle cose a cui teniamo e il tempo necessario per farlo”.

Francesca Tardelli

“Credo che nulla contribuisca di più al cambiamento culturale delle buone prassi già in essere”, sostiene Francesca Tardelli. “Burberry e Kering, per esempio, sulla sostenibilità stanno facendo molto e non solo in termini di comunicazione. Parliamo di economia circolare? Nel rigenerato, il distretto pratese è un’eccellenza troppo poco citata. Mi piacerebbe veder rappresentate altre esperienze e metodologie tipo ZDHC o la nostra di 4sustainability® che vanno oltre l’individuazione del problema e indicano la strada. Vorrei vi fosse un’attenzione maggiore ad aspetti della sostenibilità come il chemical management trascurati perché giudicati troppo tecnici o impegnativi”.

Rossella Santoro

Rossella Santoro pone l’accento sull’importanza di ogni contributo utile a fare chiarezza su un tema cruciale e complesso come la sostenibilità. “L’articolo di Life Gate ha il pregio indubbio della chiarezza e anche il layout grafico aiuta. Impossibile esaurire un tema tanto ampio in una volta sola, ma come spaccato della moda sostenibile trovo sia efficace e sufficientemente completo, soprattutto per il consumatore. Mi riferisco in particolare all’aspetto piuttosto nuovo della digitalizzazione e degli effetti ancora tutti da misurare che la pandemia ha portato sulle vendite online dei prodotti moda”.

Beatrice Santini

“Un grande lavoro di sintesi”, concorda Beatrice Santini. “Per noi che ci occupiamo di sostenibilità tutti i giorni, le sorprese sono poche, ma è raro imbattersi in un quadro altrettanto ben organizzato e accessibile. È ciò che serve per diffondere la consapevolezza: giustissima, quindi, la riflessione proposta per cui non basta sapere fare, bisogna anche saper comunicare. Un altro passaggio felice è quello che definisce il Covid “un acceleratore del rallentamento”. È un gioco linguistico che introduce in realtà un concetto sostanziale legato ai ritmi assurdi dell’industria della moda, con collezioni che si rincorrono una dietro l’altra senza soluzione di continuità e comportamenti di acquisto altrettanto isterici. Bisogna rallentare. E almeno questo, di buono, il Covid ce l’ha forse insegnato”.

Lucia Ballerini

“Non è la prima volta che si sottolinea l’importanza di rallentare”, sottolinea Lucia Ballerini. “Il Copenhagen Fashion Summit ha fatto scuola, le parole di Giorgio Armani citate anche nell’articolo hanno avuto una cassa di risonanza micidiale. Bene così, perché gli effetti della moda veloce sul sistema sono enormi: dall’enorme quantità di capi che restano invenduti, al problema connesso di come smaltirli”.

Marco Scovacricchi

Potrebbe essere la produzione on demand, la risposta? I vantaggi non sono banali: a livello ambientale, perché si riduce lo spreco di materie prime e il trasporto dei prodotti; a livello sociale, perché si toglie attrattività alla scelta di delocalizzare la produzione nei paesi dove la manodopera è a basso costo; a livello economico, perché si produce solo ciò che è stato ordinato e, dunque, già acquistato.
“La produzione on demand merita un approfondimento attento anche da parte nostra”, rileva Marco Scovacricchi. “Stiamo facendo un lavoro importante… Suonerà forse autoreferenziale, ma non c’è un solo tema fra i tanti trattati in questo articolo – dalla sostituzione delle materie prime con alternative più sostenibili alla tracciabilità della filiera – che il marchio 4sustainability® non comprenda fra i suoi progetti e le sue competenze. Questo, per me, è un motivo di soddisfazione”.

Stefano Caiani

“La tracciabilità è la chiave”, afferma Stefano Caiani. “Come scrive giustamente Cecilia Dardana, ‘sono necessari enti super partes che ci dicano cosa avviene all’interno delle fabbriche rendendo pubbliche queste informazioni’. Credo infatti che la mappatura e la qualifica della filiera realizzate solo attraverso qualche informazione sul fornitore non diano sufficienti garanzie, a maggior ragione se pensiamo all’estrema frammentazione delle catene di fornitura. La necessità di raccolte dati strutturate e controlli attivi è una forma di assicurazione anche per i consumatori, perché il racconto che si fa in etichetta sulla sostenibilità del capo sia minimamente attendibile”.

Alice Derchi

“I consumatori devono essere messi nelle condizioni di scegliere responsabilmente – concorda Alice Derchi – ma la trasparenza di per sé non è sufficiente se tutti gli altri attori del sistema moda parlano lingue diverse. Finché non si compie questo passaggio, il rischio è che la sostenibilità resti soprattutto un’operazione di marketing.
Quanto poi al digitale, ben venga se serve a organizzare eventi a distanza, a guidare gli acquisti on demand o monitorare le supply chain… Guai, però, se viene interpretato solo come mezzo per aumentare le vendite e produrre ancora di più, vanificando gli sforzi per valorizzare le eccellenze del territorio, ridurre i trasporti e il packaging e via così. Come in tutte le cose, serve intelligenza e senso della misura”.

Francesca Rulli

“È una grande soddisfazione rendersi conto come l’unione dei punti di vista di più persone, con competenze multidisciplinari e una grande passione per ciò che fanno, arricchisca l’analisi di uno stesso tema”, conclude Francesca Rulli. “Anche questo è uno dei fondamenti del nostro modo di interpretare la sostenibilità e cioè la ricerca di un diverso equilibrio attraverso la valutazione di prospettive diverse. Ringrazio il team 4sustainability di contribuire ogni giorno a questo approccio condiviso senza stancarsi mai”.