Le certificazioni sono un tema molto sentito nel mondo moda, alimentato anche da spunti di attualità. Il recente provvedimento di sospensione di Control Union (CU) India dai test e campionamenti di prodotti tessili biologici indiani per irregolarità nei processi certificativi, per esempio, ha riaperto il dibattito. Proviamo a ragionare insieme sui fattori che potrebbero utilmente sottrarre il concetto di certificazione alle cicliche perplessità legate ai processi di rilascio, ma anche alla giungla di alternative nella quale imprese e consumatori sono chiamati a orientarsi.

Non c’è pace per le certificazioni. Il 3 marzo scorso, l’International Organic Accreditation Service (IOAS) ha sospeso l’accreditamento di Control Union (CU) India – filiale di uno dei maggiori enti di certificazione al mondo – dai test e dai campionamenti di prodotti tessili biologici indiani.

La sospensione, decisa per irregolarità nei processi certificativi, riguarda in particolare le certificazioni ISO/IEC 17065, GOTS e Textile Exchange e include anche una raccomandazione a procedere ad analogo provvedimento per la certificazione CAN/CGSB-32.312 – ai sensi del Canada Organic Regime – e per la certificazione dei gruppi di coltivatori.

In attesa che CU India intraprenda le dovute azioni correttive – il termine indicato nel procedimento di sospensione è il 7 giugno prossimo – le sue attività sono di fatto congelate, visto che l’ente non può accettare nuove domande di certificazione, né rilasciare certificati per domande già pervenute.

Le reazioni: Textile Exchange e GOTS

Fin qui la notizia, che è già di per sé eclatante e ha generato infatti prese di posizione significative. In una nota di Textile Exchange, a un’ampia spiegazione del processo di accreditamento e monitoraggio degli enti di certificazione titolati a valutare la conformità ai propri standard, seguono una serie di istruzioni per le aziende certificate CU India, per gestire le conseguenze della decisione di sospensione e trasferire ad altro ente la propria certificazione.

Sebbene Textile Exchange – conclude la nota – sia rammaricato per la situazione e per gli impatti che ne deriveranno, si rileva come l’accaduto abbia messo in luce l’integrità e la coerenza del nostro sistema di garanzia. Il che contribuisce a sua volta a rafforzare la credibilità dei nostri standard e degli enti che propongono servizi di audit e certificazione”.

A Textile Exchange fa eco GOTS con una comunicazione pressoché uguale. “Pur rammaricandoci per i disagi subiti dai soggetti certificati, questo caso dimostra che il rigoroso sistema di controlli ed equilibri implementato da GOTS funziona in modo efficiente”. Segue una breve elenco di azioni per limitare i danni.

Chi controlla il controllore?

Rassicura che, in questo caso, i controlli abbiamo funzionato. Ma è la punta dell’iceberg. Il sommerso è fatto purtroppo di tante certificazioni rilasciate senza che ve ne siano i requisiti, di bollini esibiti come esercizio consapevole o inconsapevole di green e social washing, di verifiche approssimative, per non dire compiacenti. Tutte dinamiche che annullano la funzione di garanzia delle certificazioni, la cui credibilità è evidentemente legata alla terzietà dell’ente ispettivo e all’obiettività delle valutazioni a monte del rilascio.

Se si chiude un occhio sul rispetto dei requisiti e il controllo sul controllore non scatta – ipotesi assai probabile anche per la natura frammentata di filiere produttive diffuse su scala globale – come faccio a fidarmi degli attributi di sostenibilità dichiarati in etichetta? E a quali certificazioni posso dare credito fra le centinaia che esistono e che pongono problemi di scelta anche alle imprese che se ne vogliono dotare? Certificazioni che si esprimono spesso solo su un attributo di prodotto e che si sovrappongono ad altre simili ma non del tutto, attendibili ma non del tutto…

Per approfondire questo aspetto, leggi il nostro articolo

CLAIM ETICI, ETICHETTE, CERTIFICAZIONI DI SOSTENIBILITÀ: COME ORIENTARSI

Certificazioni sì, ma…

Non esiste a priori un’iniziativa migliore delle altre, in termini di efficacia e trasparenza, ma è evidente che la giungla attuale delle certificazioni non aiuta la chiarezza. Serve armonizzare e semplificare, puntando su standard comprensivi di più requisiti e su un linguaggio condiviso. Soprattutto, servono progetti strutturati e dati a supporto, senza i quali il concetto di certificazione semplicemente non regge.

Occorrono sistemi di misurazione delle performance a garanzia della credibilità di affermazioni e claim. Occorrono piattaforme digitali per la condivisione dei dati e per far sì che processi e prodotti raccontino storie autentiche di sostenibilità e riduzione d’impatto.

Attraverso il framework 4sustainability® incentrato sulla costruzione dei dati di sostenibilità della filiera e una piattaforma come Ympact sviluppata per l’ottimizzazione dei processi di raccolta e verifica e la collaborazione fra i diversi attori del sistema, stiamo configurando un percorso innovativo che si integra con il mondo delle certificazioni”, spiega Francesca Rulli, CEO e Founder di Process Factory e 4sustainability.
Il credo di fondo è che non può esserci prodotto sostenibile senza una produzione sostenibile e, dunque, senza una filiera che sceglie di misurarsi per ridurre i propri impatti. Il processo di costruzione dei dati è la nostra ricetta per proteggere gli attori della filiera e i consumatori da green e social washing”.