Di Life Cycle Assessment (LCA) sentiamo parlare spesso. Ma in cosa consiste questo strumento e perché acquista sempre più importanza nella percezione del legislatore e del mercato? In questo approfondimento proviamo a fare chiarezza introducendo anche delle distinzioni.

LCA: in quanti conoscono davvero il significato di questo acronimo? LCA sta per Life Cycle Assessment, in italiano “valutazione del ciclo di vita” dei prodotti. Nonostante da un punto di vista scientifico questa metodologia sia conosciuta e utilizzata da tempo, solo negli ultimi anni stiamo assistendo alla sua diffusione e applicazione da parte delle aziende e quindi a una sua comunicazione anche all’esterno.

Questo tipo d’indagine nasce per dotare le imprese di uno strumento scientifico strutturato e affidabile da impiegare nell’analisi dei processi produttivi di un bene, al fine di individuare azioni di miglioramento ed efficientamento dei processi stessi tali da ridurre consumi e impatti associati.

Nel fashion e in tutti i settori industriali in genere, si ricorre sempre più spesso a questo strumento per misurare l’impatto ambientale di un prodotto, con il fine principale di dimostrare al mondo quanto si è “bravi”. Anche se, come vedremo più avanti, l’LCA sarebbe nato per analizzare, non per comunicare.

Dalla culla… alla culla

La metodologia LCA, se ci soffermiamo attimo, ha contenuti innovativi realmente importanti, perché considera il prodotto non più e non solo per le sue caratteristiche finali, ma come il risultato di tutti  i passaggi per realizzarlo, delle fasi di utilizzo e fine vita, valutandone gli impatti derivanti dal consumo di risorse (materie prime, acqua, energia, prodotti ausiliari) e dai rilasci nell’ambiente (scarichi, emissioni, rifiuti, scarti). Si parla, non a caso, di analisi dalla culla alla tomba che, in una logica di economia circolare, potremmo riformulare come dalla culla alla culla.
Per alcune applicazioni, è possibile limitare l’analisi alle fasi di produzione e dunque a una parte del ciclo di vita del prodotto. Un’analisi dalla culla al cancello, in questo caso, che riguarda tipicamente chi produce semilavorati.

Per poter comunicare all’esterno risultati e dichiarazioni assertive su un prodotto, tuttavia, non è possibile escludere le fasi di uso e fine vita, che possono incidere in modo significativo sul suo impatto finale, coinvolgendo il consumatore per responsabilizzarlo rispetto alle conseguenze delle sue scelte d’acquisto.
Per un capo di abbigliamento utilizzato a lungo nel tempo, si dovranno considerare anche gli impatti della sua manutenzione e, in particolare, delle fasi di lavaggio e asciugatura. Impatti che aumenteranno quanto più il capo dura, “ammortizzando” però quelli derivanti dai processi produttivi.

Occhio al greenwashing

L’importanza crescente di questo tipo d’indagine è desumibile, tra i vari segnali, da una recente indicazione dell’Antitrust danese, in base alla quale coniare un claim di sostenibilità senza LCA a supporto espone di fatto l’azienda a sospetto di greenwashing.
L’assunto del vademecum stilato dall’ente analogo alla nostra Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) parla chiaro: in assenza di dati precisi non è lecito parlare di sostenibilità.
Nel documento si afferma chiaramente che, in ragione della difficoltà di definire un qualsiasi prodotto o servizio genericamente sostenibile e per non incorrere nel rischio di formulare messaggi vaghi, scorretti o fuorvianti – e dunque perseguibili in quanto pubblicità ingannevole – soltanto un’analisi del ciclo di vita (LCA) può mettere al riparo operatori economici e consumatori.

La guida dell’Ombudsman danese arriva dopo uno studio della Commissione Europea del 2021 condotta su siti web aziendali in merito a dichiarazioni di sostenibilità di prodotti e servizi, che evidenziava come più della metà ricadessero nell’illecito. Il 37% di questi presunti green claim si basava su affermazioni vaghe e generiche, il restante 59% era privo di informazioni oggettive e dati a sostegno.

Come procedere all’LCA: l’approccio 4s MATERIALS

4s MATERIALS è l’iniziativa della roadmap 4sustainability finalizzata alla graduale sostituzione delle materie prime con alternative sostenibili. Tra i metodi e gli standard riconosciuti inseriti nella library per le conversioni, è compresa anche l’analisi LCA, a individuare tutti quei materiali autenticamente sostenibili in quanto supportati da dati analitici o da certificazioni attestanti attributi positivi di sostenibilità. Solo incrementando in volume la percentuale di materiali sostenibili, infatti, un’azienda esprime al meglio la sua strategia di conversione dei materiali.

E a proposito di standard per il calcolo LCA, le norme che definiscono in modo chiaro e univoco principi, requisiti e linee guida per l’analisi sono le ISO 14040 e ISO 14044
Da queste possono discendere regole specifiche per tipologie di prodotto – le cosiddette PCR – Product Category Rules, sviluppate da chi rilascia poi certificazioni di prodotto – ma la sostanza è che un progetto di LCA è un lavoro di dettaglio che richiede di andare molto a fondo nella raccolta dei dati da utilizzare. Questi dati devono essere per lo più dati primari e cioè raccolti “alla fonte” dalle aziende che eseguono i relativi processi, perché i dati secondari provenienti da banche-dati da soli non bastano.

La sfida, nel caso delle aziende di prodotto, è trovare un equilibrio tra l’onerosità di un’indagine e la sua precisione e affidabilità. Realizzare uno studio che mette a confronto prodotti diversi basandolo solo su dati secondari, per esempio, è più semplice ma può generare risultati il cui margine d’incertezza rende il confronto stesso impossibile.

L’impatto ambientale di un prodotto – spiega Francesca Rullidipende dalla materia prima che utilizzo, ma anche dalle ‘fabbriche’ in cui scelgo di eseguire i processi produttivi: fanno uso di energie rinnovabili? quanta acqua impiegano? ricorrono a ricette con chimica green? L’impatto di un prodotto è la somma ragionata di tutti questi attributi, ecco perché il calcolo LCA è tanto complesso: perché presuppone che tanti attori diversi (tante ‘fabbriche’ diverse…) mettano a disposizione i dati primari che servono all’indagine”.

A queste e altre difficoltà che si possono incontrare, viene in aiuto la metodologia, che prevede per ogni studio LCA quattro fasi ben definite:

  • definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione
  • analisi di inventario
  • valutazione dell’impatto ambientale
  • interpretazione

Le fasi inziali e finali, spesso trascurate, sono quelle più importanti, in primis perché stabiliscono con chiarezza lo scopo dello studio e quindi anche i suoi limiti e, in secondo luogo, perché interpretano i risultati calcolando anche i margini d’incertezza.

Comparazione e interpretazione

Per effettuare una corretta comparazione tra prodotti diversi deve essere condotto uno studio che, fin dalla definizione degli obiettivi e della cornice, stabilisca le modalità e gli elementi di comparazione, avendo almeno degli elementi in comune quali la destinazione d’uso del prodotto, l’utilizzo di materia prima vergine o riciclata, la categoria dell’oggetto, ecc.
La fase di interpretazione, di conseguenza, sarà cruciale per dare la giusta lettura ai risultati emersi fornendo gli elementi per una corretta comunicazione degli stessi all’esterno.

Mettiamo invece il caso di uno studio di LCA condotto su una stessa maglietta da due soggetti diversi. I risultati potrebbero essere differenti perché sono diverse le ipotesi e i paletti definiti in partenza. Di qui l’importanza di comparare i risultati dei due studi non solo in termini assoluti, ma tenendo conto anche degli obiettivi e delle ipotesi di lavoro iniziali. Il rischio, altrimenti, è di comunicare risultati migliori, a una lettura superficiale, quando potrebbero non esserlo. Esponendosi ad accuse di fake sustainability dagli effetti imprevedibili.

Impatti ambientali ma non solo

Una nota in chiusura di non poco rilievo. “Parlare di impatto di prodotto e quindi dei processi necessari per realizzarlo – sottolinea Rulli – non può limitarsi ai soli aspetti ambientali, ma deve comprendere valutazioni di impatto sociale basate necessariamente sulla tracciabilità e la trasparenza della filiera produttiva. Una filiera che sappiamo essere molto frammentata, con un numero infinito di collezioni ogni anno.
Ora, in questo contesto è utopia pensare di fare degli studi accurati su tutti i prodotti. Come è impensabile che dei non esperti siano in grado di verificare se le assunzioni sono effettivamente comparabili o se lo studio è fatto con dati primari oppure con simulazioni da database.
La mia opinione è che l’uso puntuale di questo approccio sia praticabile su produzioni continuative, per fare ricerca e innovazione finalizzate alla riduzione degli impatti di processo e di materiali. È la logica che ci ha spinti a inserire lo studio LCA fra le iniziative riconosciute di 4s MATERIALS.

Quando invece parliamo di impatto di prodotto e di produzione, ci riferiamo a una valutazione sulle sei dimensioni-chiave della sostenibilità – le stesse identificate dai sei pillar della roadmap 4sustainability – e quindi ai dati reali d’impatto ambientale e sociale.
È un metodo incentrato su misurazioni concrete e sul coinvolgimento di un numero importante di attori per la comparabilità dei livelli di implementazione nel tempo e per la trasparenza sul prodotto. Quante più aziende di produzione riducono i loro impatti ambientale e sociale, tanti più prodotti sostenibili l’industria del fashion & luxury immetterà sul mercato”.