Al consumatore medio che entra in negozio per acquistare un capo di abbigliamento, un paio di scarpe o un accessorio, l’espressione chemical management suonerà molto tecnica e poco interessante. Devo comprare una maglietta per la palestra, un maglioncino, una cintura… Cosa c’entra la chimica? C’entra eccome, perché ogni vestito che indosso è stato prodotto con un largo impiego di sostanze chimiche, non tutte esattamente innocue o sostenibili.

 

Conoscere per proteggersi

Quando il costo di produzione è molto basso, c’è qualcuno comunque che paga e questo “qualcuno” sono le persone e/o l’ambiente. Non è detto, in altre parole, che gli articoli di moda che tanto ci piacciono, griffati o meno, siano esenti da rischi, che siano cioè prodotti senza l’uso di sostanze chimiche potenzialmente dannose. Colpa di una moda sempre più veloce, di collezioni che si rincorrono una dietro l’altra per massimizzare vendite e profitti. La morale è che se voglio fare un acquisto consapevole, devo prima informarmi, sapendo che, a priori, né il marchio, né la dicitura Made in Italy mi mettono completamente al riparo.

Cominciamo col dire che per ottenere la solidità dei colori durante il lavaggio, una performance di idrorepellenza o un trattamento antimacchia, è assai probabile che venga usata la chimica. Ci siamo mai chiesti quali siano gli effetti di questi processi sull’ambiente? Quanto impattano gli scarichi delle fabbriche nel mare in cui peschiamo o nei fiumi da cui attingiamo l’acqua per irrigare i campi? E quali danni subiamo per la nostra salute, attraverso i cibi che ingeriamo e i vestiti che indossiamo?

 

Il ruolo dei brand, da grandi accusati a soggetti attivi del cambiamento

Gli attacchi di Greenpeace ai maggiori brand del fashion che anni fa cominciarono a smuovere le coscienze su temi come lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, il ricorso al lavoro minorile, le violazioni dei diritti dei lavoratori… hanno portato alla luce responsabilità gravissime e abusi imputabili, se non direttamente ai brand noti al grande pubblico, alle loro reti di fornitura, sulle quali veniva esercitato alla meglio un monitoraggio di facciata perché così faceva comodo che fosse.

Dalla tragedia del Rhana Plaza nel 2013 – l’incidente più grave che abbia mai colpito il settore tessile, con oltre mille operai rimasti uccisi nel crollo del fatiscente impianto di Dhaka, in Bangladesh – tante cose sono fortunatamente cambiate. Il cinismo consapevole di cui molte realtà produttive si sono macchiate sta cedendo piano piano il passo a politiche di sostenibilità e responsabilità sociale in cui sono coinvolti a cascata anche tanti fornitori. L’idea alla base del cambiamento in atto è che si debba lavorare insieme al raggiungimento di obiettivi graduali ma rigorosi e vincolanti per tutti. Fra questi c’è la buona chimica, che si sostanzia nell’eliminazione delle sostanze chimiche pericolose per la salute e l’ambiente dai vari cicli produttivi dell’industria della moda. Quelle stesse sostanze di cui negli ultimi cinquant’anni si è fatto un uso massiccio perché poco costose e molto performanti.

Su questo fronte, la maggiore iniziativa globale nata in risposta alle accuse di Greepeace e di altre ONG è Zero Discharge of Hazardous Chemicals – ZDHC, un tavolo di lavoro divenuto poi fondazione a cui aderiscono i maggiori brand internazionali del fashion & luxury, le aziende più avanzate della filiera, produttori chimici, laboratori di analisi, enti di ricerca, associazioni e società come Process Factory specializzate nel supportare le imprese nel loro processo di conversione alla buona chimica e, più in generale, alla sostenibilità come via strategica allo sviluppo.

 

La “garanzia” del Made in Italy

Occorre fare chiarezza anche sulla dicitura Made in Italy e sulla tendenza ad attribuirle un significato esteso di garanzia che non è detto abbia. Mettiamo che la maglietta o il maglioncino del nostro esempio siano stati effettivamente disegnati e cuciti in Italia. Questo sarà sufficiente a scrivere in etichetta Made in Italy, senza obbligo per il produttore di specificare che la materia prima, il lavaggio, la tintura, ecc. sono stati eseguiti, per esempio, dall’altra parte del mondo.

Ora, se non ci sono obblighi di legge, se non c’è un ente terzo che controlla, se le leggi sono poche e frammentate e ogni Paese si regola come crede, io consumatore avrò ben pochi mezzi per fare una scelta d’acquisto consapevole.

Posso affidarmi al buon senso, naturalmente. E il buon senso dovrebbe suggerirmi almeno qualche domanda. Dovrei chiedermi, per esempio, com’è possibile che nei vari passaggi che vanno dalla selezione della materia prima alla distribuzione del capo finito nei punti vendita – passando per la produzione del filo e la trasformazione del tessuto – tutti ci guadagnino un po’ e che i lavoratori, allo stesso tempo, siano equamente pagati, la fabbrica mantenuta in sicurezza, i consumi d’acqua e di energia ridotti ed evitato l’uso di sostanze chimiche tossiche o nocive. Evidentemente c’è qualcosa che non torna. Qual è il mio contributo al sistema se chiudo gli occhi, se mi adeguo e basta, senza chiedermi che storia c’è dietro quel dato prodotto e quali danni potrei riceverne io?

 

A ognuno la sua parte

Il tema è ampio anche volendo limitarci solo al chemical management, vale a dire alla chimica utilizzata per produrre quello che indossiamo. Per certo, ognuno è chiamato a fare la sua parte: il legislatore che deve varare leggi più avanzate e rigorose, i governi che devono applicarle, gli organi di controllo che devono garantirne il rispetto, la magistratura che deve sanzionare con rigore le eventuali violazioni e il consumatore che deve pretendere di essere informato.

Brand e filiera devono collaborare fra loro per eliminare dai cicli produttivi le sostanze chimiche tossiche e nocive per la salute e l’ambiente, affidandosi eventualmente a protocolli riconosciuti come quello a marchio 4sustainability® allineato all’approccio ZDHC. Una scelta etica su base volontaria, sicuramente, ma anche una strategia di business.

Oltre al rispetto dovuto delle norme vigenti e di quelle più stringenti che verranno, c’è una quota crescente del mercato che realizza processi virtuosi e alternative sostenibili, impegnandosi già prima che il Covid-19 intervenisse a enfatizzare la crisi del sistema e la necessità di accelerare verso una direzione a questo punto obbligata: la produzione responsabile.

A segnare la strada – spiega Francesca Rulli, Founder e CEO di Process Factory/4sustainability®c’è proprio il consumatore, ancora limitato nella conoscenza di certi temi, spesso privo di strumenti per capirne di più, ma forte di una sensibilità crescente e della volontà di attrezzarsi per comportarsi responsabilmente. Il che significa poi “premiare” i marchi che dimostrano di voler ripulire davvero i propri processi di produzione, portando in negozio – fisico o virtuale – prodotti con etichette chiare, attendibili e comprensibili. E preparando il personale a rispondere e informare il consumatore sugli attributi di sostenibilità dei capi, a partire dalla trasparenza della filiera produttiva: come sono stati prodotti e dove, attraverso quali passaggi?

 

Consigli per gli acquisti

In attesa che tutte le tessere del mosaico vadano al loro posto, vediamo di dare qualche indicazione utile per un acquisto informato anche in assenza di un’etichetta ben fatta. La prima cosa da sapere – abbiamo detto – è che ci sono sostanze pericolose per la nostra salute usate comunemente nella produzione dei vestiti. Gli ftalati, per esempio, sono impiegati per conferire flessibilità e morbidezza alle stampe gommate: a contatto con la pelle, possono alla lunga alterare l’equilibrio ormonale dell’organismo.

Un capitolo vastissimo è quello dei coloranti, che possono contenere sostanze cancerogene come le ammine aromatiche. Noti cancerogeni sono il cloro – utilizzato per “legare” moltissimi coloranti – e il cromo, che serve per fissare il colore sul tessuto. La formaldeide è un gas irritante per gli occhi e le vie respiratorie usato per fissare i pigmenti nella fase di stampa e anche come conservante nella fase di confezionamento. Fortemente allergizzante è anche il nichel: occhio a jeans e capi scuri o molto colorati perché è probabile che ne contengano in quantità significative.

Non è questa la sede, evidentemente, per esaurire un tema tanto vasto. Il punto è che il contatto prolungato con tali sostanze può causare molteplici guai, da ‘banali’ reazioni allergiche a squilibri ormonali, a forme tumorali di varia gravità. Lavando i capi, inoltre, tali sostanze finiscono in parte nell’acqua e quindi nell’ambiente, con le immaginabili conseguenze a livello di inquinamento e la possibilità di entrarvi di nuovo a contatto attraverso il cibo che ingeriamo.

Io credo che basti questo a rendere l’espressione chemical management un po’ meno distante dal nostro quotidiano e un po’ più interessante, no? È qualcosa – sottolinea Rulli – di cui certamente devono occuparsi le aziende e chi come noi lavora con loro per migliorare i processi produttivi in senso sostenibile, ma che ogni singolo individuo dovrebbe avere a cuore e ricompensare con i suoi comportamenti d’acquisto. Non per arricchire un marchio piuttosto che un altro, ma perché ne va della salute nostra e del pianeta e del futuro dei nostri figli”.