Hai già dato uno sguardo alla Fashion CEO Agenda 2021? Il report, molto atteso ogni anno, affronta le questioni più urgenti che l’industria della moda è chiamata ad affrontare in tema di impatto ambientale e sociale, fornendo orientamenti utili sugli interventi da mettere in atto. Cinque le priorità individuate nell’ultima edizione, sulle quali le aziende di moda dovrebbero responsabilmente concentrarsi.

Il report è pubblicato dalla Global Fashion Agenda (GFA), organizzazione no profit la cui missione è mobilitare e guidare il settore nella transizione verso modelli di business concretamente sostenibili. GFA è anche dietro le quinte del Copenhagen Fashion Summit, diventato in pochi anni, dalla sua nascita nel 2012, uno degli eventi di riferimento in materia di moda e sostenibilità.

Le 5 priorità della Fashion CEO Agenda

Per la prima volta, la Fashion CEO Agenda propone una visione che vede nella coesistenza tra sostenibilità ambientale e sociale una necessità imperativa. Il motivo? Non si può raggiungere la prima indipendentemente dall’altra.

Le questioni più urgenti approfondite dal report valgono come ordine di priorità, sono gli ambiti sui quali si invitano i brand a concentrare gli sforzi. L’Agenda indica anche i fattori abilitanti interni e cioè le basi da stabilire in seno all’organizzazione per sostenere i manager impegnati in politiche ambiziose di sostenibilità. Tra questi, troviamo l’innovazione del modello di business, la digitalizzazione, la governance e la tracciabilità.
I fattori abilitanti esterni sono invece quelli che richiedono la collaborazione di soggetti terzi rispetto all’organizzazione: rientrano in questa fattispecie il coinvolgimento dei consumatori, le partnership strategiche, le soluzioni innovative condivise, gli incentivi per gli investitori, le relazioni con le ONG, i media, ecc.

Ma vediamo più nel dettaglio le cinque priorità identificate nel report.

Ambienti di lavoro rispettosi e sicuri

La prima tematica si riferisce all’esigenza di sostenere gli standard per il rispetto dei diritti umani universali, con specifico riferimento ai lavoratori dell’industria della moda. Quelli esposti a rischi professionali di varia natura ammonterebbero ad oltre 65 milioni, rischi che vanno dall’esposizione a condizioni di lavoro pericolose alla discriminazione, agli effetti dela pandemia da Covid-19.

L’Unione Europea ha annunciato l’introduzione di una proposta legislativa basata su due fondamentali pilastri: la due diligence obbligatoria per le società e un’iniziativa volta a chiarire i doveri degli amministratori. L scopo è far sì che le aziende diano una chiara evidenza dei loro processi, delle loro politiche, delle pratiche di acquisto e salvaguardia dei diritti umani.
Questa spinta dall’alto è supportata da una seconda spinta che proviene dal basso e cioè l’aspettativa delle nuove generazioni verso un atteggiamento più responsabile delle aziende in senso sia sociale che ambientale. Parliamo di un’aspettativa in costante crescita che ha raggiunto oggi quota 87% tra i Millennials e quota 94% tra i giovani e giovanissimi della Generazione Z.

Sistemi salariali migliori

L’obiettivo della seconda priorità è la collaborazione tra tutte le parti interessate per sviluppare e implementare sistemi salariali migliori. I benefici che si potrebbero trarre dagli investimenti in questo campo dovrebbero agire di per sé da stimolo: un aumento della ricchezza delle economie e delle persone, una crescente produttività in termini sia quantitativi e qualitativi, un impatto positivo sul benessere dei lavoratori con la riduzione prevedibile di tante forme prevedibili di conflitto, ecc.

Anche in questo caso, il report tratta la questione come un’opportunità per i brand, oltre che come monito per progredire tutti insieme verso una società più civile… Peccato che il traguardo sia oggi ancora distante. Manca infatti una regolamentazione che stabilisca cosa s’intenda per salari dignitosi e sono tanti i brand che ancora aggirano le indicazioni legislative sui salari minimi. Ad aggravare la situazione è arrivata poi la pandemia e con essa il timore che queste problematiche passino gioco forza in secondo piano.

Per evitare “distrazioni” – si legge nell’ultima edizione della Fashion CEO Agenda – è necessario che i brand si rimbocchino le maniche, impegnandosi a verificare l’effettivo rispetto delle normative lungo le proprie filiere. Ancora più a monte, i brand devono poter comprendere come i miglioramenti nelle diverse aree (acquisti, produzione, formazione, ecc.) possano contribuire alla creazione di sistemi salariali più equi. Altrettanto fondamentale è che si interroghino sui vari sistemi di determinazione dei salari, a cominciare dai contratti collettivi.

Circolarità

La terza priorità tocca i principi fondanti dell’economia circolare e cioè l’approccio per cui bisogna progettare, produrre e vendere prodotti già predisposti per consentire il riuso e il riciclo su vasta scala delle parti tessili. Considerando che attualmente il 73% circa della produzione mondiale di capi finisce in discarica, la sfida non è di poco conto.

Se da una parte alcuni marchi hanno avviato il processo di riprogettazione dei cicli di vita dei prodotti – coerentemente con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, che impegna i firmatari al recupero di almeno 1 capo su 5 entro il 2030 – dall’altra, le complessità relative alla modifica del modello lineare rallentano la transizione verso la circolarità.

In questo quadro, l’UE ha imposto agli Stati membri di organizzare la raccolta differenziata dei rifiuti tessili post-consumo entro il 2025, ma è evidente che il cambiamento debba realizzarsi prima di tutto sul piano culturale.
Scegliere bene in fase di progettazione, aumentare la quota di fibre riciclate nei prodotti, analizzare gli stock invenduti per individuare possibili soluzioni, introdurre norme dedicate all’eco-design, allo smistamento e al recupero dei materiali tessili… Sono queste le sfide sulle quali l’industria del fashion deve acquisire consapevolezza per agire poi in coerenza.

Uso efficiente delle risorse

La quarta priorità individuata dalla Fashion CEO Agenda 2021 è l’uso intelligente di acqua, energia e prodotti chimici. Come noto, l’industria del consumo sta mettendo a dura prova le risorse naturali e la biodiversità, ma il rovescio positivo della medaglia sta nel margine davvero ampio di quello che è possibile fare per invertire la tendenza.

Per quanto riguarda il comparto della moda, è dimostrato che gli stabilimenti di trasformazione tessile possono ridurre in media il consumo di acqua dell’11% e quello di energia del 7%, con un ritorno sull’investimento in nove mesi.
Quanto ai prodotti chimici, conosciamo bene i vantaggi sulla salute delle persone e l’ambiente che possono derivare dalla riduzione progressiva delle sostanze chimiche nocive nella lavorazione dei tessuti e della pelle.

Per cogliere questo potenziale, in gran parte inespresso, brand e fornitori sono chiamati in primis a collaborare fra loro per “misurare” gli impatti lungo le rispettive catene del valore e agire poi di conseguenza. È inoltre necessaria una gestione più sostenibile dell’acqua, così come il supporto alla cosiddetta agricoltura rigenerativa. Un ruolo decisivo lo giocano anche le leggi, gli incentivi e le iniziative sovranazionali. A titolo esemplificativo, citiamo la Carta dell’industria della moda delle Nazioni Unite sull’azione per il clima, la cui missione è guidare l’industria della moda verso zero emissioni di gas sera entro il 2050.

Scelta intelligente dei materiali

La quinta e ultima priorità prevede di ridurre gli effetti dannosi delle fibre in uso e di sviluppare e scalare fibre innovative e più sostenibili. L’importanza di questa tematica la si evince dal fatto che i mix di materiali possono determinare fino ai 2/3 dell’impatto ambientale di un brand.

In questi mix, possono rientrare varie tipologie di fibre apparentemente poco impattanti: le fibre naturali, per esempio, che sanno tanto di sostenibile, ma il cui trattamento prevede talvolta un enorme quantitativo di acqua; le fibre animali come lana, piume, seta, pelli…, che si portano dietro rischi legati al maltrattamento delle varie specie o all’uso massiccio di prodotti chimici; le fibre sintetiche come il poliestere, che a fonte di pregi come la resistenza, la maggiore riciclabilità e un minore consumo di acqua, presentano criticità evidenti, come l’origine da risorse non rinnovabili come il petrolio, la non biodegradabilità e il rilascio di microfibre, in fase di lavaggio, che rappresentano fino al 35% dell’inquinamento da microplastiche primarie negli oceani.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un crescente utilizzo di mix di materiali sostenibili nelle collezioni, a una nuova consapevolezza sull’inquinamento da microplastiche e una diffusione più ampia di fibre biosintetiche. La strada da fare è ancora lunga, però.

Di qui l’invito del report a valutare l’impatto ambientale e sociale dei materiali utilizzati privilegiando quelli a impatto ridotto. Il fine ultimo che dovrebbero porsi le aziende del settore è rinunciare alla dipendenza da una fibra e prenderle in considerazione tutte come una gamma diversificata di materiali adattabili a più applicazioni. Ricostruire la salute del suolo e la biodiversità naturale è un traguardo che passa necessariamente da questo approccio.