Un sassolino in montagna si smuove per una qualche ragione e comincia a calare, a correre e precipitare, trascinando con sé altri sassi e altra terra… Fino a diventare uno smottamento, poi una frana che arriva fino a valle.
Definire “sassolino” il disegno di legge presentato nello Stato di New York per obbligare le aziende di moda a tracciare e comunicare il loro impatto ambientale lungo la catena del valore è perfino riduttivo e ciò che potrebbe innescare nel fashion è a tutti gli effetti una valanga straordinaria per natura e portata.

Stiamo assistendo a qualcosa di simile sulla due diligence in materia di diritti umani e ambiente, con il legislatore europeo e di tanti stati nazionali – Germania, Francia, Regno Unito, Australia, solo per citarne alcuni – impegnati a rincorrersi per definire le nuove responsabilità di brand e grandi aziende della filiera.
Il Fashion Sustainability and Social Accountability Act, tuttavia, segnerebbe una svolta ancora più importante, perché in gioco ci sono tutti gli aspetti legati alla sostenibilità dell’industria della moda

I contenuti innovativi della proposta

  • L’obbligo per le aziende di mappare almeno il 50% della loro filiera, dalla scelta delle materie prime alla logistica, misurando gli impatti sociali e ambientali in termini di emissioni di CO2, consumo d’acqua e di energia, gestione delle sostanze chimiche, salari, ecc.
  • L’obbligo di dare evidenza pubblica dei loro volumi di produzione e dei consumi di cotone e poliestere.
  • L’obbligo temporale di dodici mesi per identificare i fornitori da coinvolgere nella mappatura e di 18 mesi per analizzarne l’impatto.

Le aziende interessate

A completare questo quadro sintetico, aggiungiamo che la norma si applicherebbe alle aziende di moda che operano a New York indipendentemente dal luogo d’origine con un fatturato superiore ai cento milioni di dollari l’anno – Inditex, H&M, Shein… tutti i grandi gruppi del settore, in pratica – e che sono previste sanzioni per i trasgressori fino al 2% del fatturato annuo, con l’inserimento dei “cattivi” in un elenco pubblico.

Se approvato, l’Assembly Bill A8352/S7428 introdotto dalla deputata Anna Kelles e dalla senatrice Alessandra Biaggi dello Stato di New York con il sostegno di ONG della moda e della sostenibilità tra cui Stella McCartney, il New Standard Institute, il Natural Resources Defence Council e la NY City Environmental Justice Alliance, diverrebbe insomma la legge più ambiziosa mai varata sulla moda sostenibile.

I tempi? Brevissimi: negli intenti dei promotori, il voto potrebbe arrivare già a primavera. E la valanga di cui sopra sarebbe allora inevitabile, anche perché di “sassolini” sparsi ce ne sono altri. Più piccoli, magari, ma eloquenti circa le dinamiche in atto.

Paris Fashion Week e Copenhagen Fashion Week

Legata solo alle passerelle, ma analoga nei presupposti è per esempio la decisione di misurare l’impatto ambientale, sociale ed economico delle aziende protagoniste della settimana della moda di Parigi, già applicata durante la stagione primavera-estate 2022. È mancato un po’ di coraggio, perché le aziende coinvolte hanno potuto scegliere se mantenere o meno riservate le loro performance… Ma il segnale è comunque interessante, soprattutto se letto in combinato con il piano d’azione della Copenhagen Fashion Week in cui si vincola la partecipazione delle aziende al raggiungimento di un punteggio minimo di sostenibilità in sei diverse aree di interesse: direzione strategica, design, materie prime smart, condizioni di lavoro, coinvolgimento dei consumatori ed eventi.

Fra questi requisiti minimi, citiamo a titolo d’esempio l’impegno a non distruggere i capi invenduti, l’impegno a utilizzare nella metà almeno delle proprie collezioni prodotti certificati o biologici e tessuti da riuso o da riciclo, l’impegno a usare solo packaging sostenibile e ad allestire i propri stand con scenografie a rifiuti zero, l’impegno a riproporre campioni già mostrati o a digitalizzare l’attività relativa, la disponibilità di un elenco stilato di sostanze soggette a restrizioni in coerenza con la direttiva EU REACH, il rispetto delle normative più stringenti in materia di accesso al lavoro e di salute e sicurezza per i propri dipendenti e collaboratori, l’adozione di politiche chiare di informazione interna e di comunicazione ai consumatori circa le proprie strategie di sostenibilità… Fino ai criteri di casting per le modelle impegnate nei defilé.

Il segreto è nel backstage

In passerella, si sa, va in scena la moda nei suoi aspetti più attraenti. Le aziende mostrano il meglio di sé e in questo “meglio”, da qualche anno, non c’è più solo la creatività intesa in senso estetico, ma anche il valore aggiunto legato ai contenuti di sostenibilità – autentici, misurabili e dimostrabili – delle collezioni. Il backstage, in questo senso, conta più dello show. E per backstage intendiamo lo sforzo impresso dalle aziende per trasformare in senso sostenibile la propria produzione e le metodologie più innovative sviluppate per sostenere questo sforzo. 4sustainability rientra a pieno titolo in questo contesto virtuoso, in quanto marchio di garanzia e framework di implementazione di progetti concreti di sostenibilità.

Sono anni – spiega la sua creatrice Francesca Rulliche studiamo un sistema di raccolta dati di filiera, già applicato e continuamente migliorato sulla base delle successive evidenze. Questo impegno si basa sulla consapevolezza profonda che nessun brand può dirsi sostenibile senza che anche il suo modello produttivo lo sia. E per dotarsi di un modello di produzione sostenibile, la sola strada è mappare la filiera, coinvolgerla gradualmente in percentuali significative, raccogliere i dati di impatto ambientale e sociale per costruire insieme dei percorsi di miglioramento da monitorare nel tempo. Nasce da qui il sistema 4sustainability di assessment e monitoraggio di filiera, già digitalizzato nella 4s Platform per la sua applicabilità a filiere anche lontane. Siamo felici che anche il legislatore, finalmente, stia spingendo in questa stessa direzione, perché avremo modo di capitalizzare gli investimenti fatti e l’esperienza maturata sul campo a fianco delle aziende”.