Cosa vuol dire vegano e cosa sostenibile? I due termini non coincidono affatto, anzi. Consapevolmente o meno, molti brand di moda utilizzano il primo in maniera impropria. E non sono pochi nemmeno i casi di chi si professa vegano senza pari attenzione all’ambiente. Vediamo di mettere ordine per aiutare anche i consumatori a fare scelte di acquisto consapevoli.

Che cos’è la moda vegana? Semplicemente, una moda fatta di abiti e accessori prodotti senza far del male agli animali, utilizzando materiali e processi che non ne mettano a rischio la salute e la vita. In sostanza, un capo di abbigliamento, una borsa, un paio di scarpe… possono definirsi vegani se realizzati senza alcun impiego di lana, seta, pelle e pelliccia.

Vegano e sostenibile sono la stessa cosa?

È abbastanza intuitivo che vegano non significa né ecologico né sostenibile. Il PVC, per esempio, è una scelta perfettamente vegana, ma la tossicità del materiale, il suo impatto sull’ambiente sono ben documentati.

La prima distinzione da fare è fra etica e sostenibilità. L’etica riguarda ad esempio i diritti e il benessere dei lavoratori, ma anche il tema dello sfruttamento degli animali: è ciò che ci consente di scegliere fra ciò che riteniamo giusto e ingiusto.

La sostenibilità correttamente intesa – tenendo cioè conto delle sue tre dimensioni ambientale, sociale ed economico-organizzativa – comprende l’etica, ma anche aspetti-chiave quale gli impatti della produzione sull’ambiente e, dunque, le risorse consumate, i processi, la gestione delle sostanze chimiche e dei rifiuti…

Una persona vegana può trovare sbagliato indossare un capo in pelle che un tempo era un essere vivente perché la sua sensibilità e la sua etica gli impediscono di farlo. È una posizione comprensibile e rispettabile, ma stiamo parlando di etica, non di sostenibilità.

Vegano e Cruelty Free sono sinonimi?

Si fa spesso confusione anche sull’espressione Cruelty Free, che non è necessariamente un requisito della moda vegana. Cruelty Free fa infatti riferimento solo ai test sugli animali e al modo in cui vengono trattati: senza crudeltà, appunto. Un prodotto non testato sugli animali, dunque, è a tutti gli effetti Cruelty Free, ma può comunque contenere degli ingredienti di origine animale.

La moda vegana è amica del pianeta?

Difficile liquidare la domanda con un sì o con un no. Se guardiamo solo alle emissioni di CO2 causate dai materiali di origine animale rispetto a quelle prodotte dalle alternative vegane, la risposta è generalmente sì. Le valutazioni basate sul ciclo di vita dei prodotti mostrano che la produzione della pelle di origine bovina comporta emissioni di gas serra più elevate rispetto, per esempio, a quelle derivanti dalla produzione di cotone o poliestere.

Alcune di queste emissioni provengono dal metano prodotto delle mucche attraverso la digestione, altre dalla produzione di cibo e dalla deforestazione collegata alla catena di approvvigionamento della pelle. Problemi simili ci sono per la lana e la seta, che hanno bisogno di quantità importanti di energia per essere lavorate e concorrono dunque al riscaldamento globale più di alternative sintetiche come il poliestere e l’acetato.

Durabilità, fine vita… Chi vince?

Per trarre una conclusione intellettualmente onesta sul confronto vegano versus sostenibile, bisogna considerare tutti i punti di vista, inclusa la parte per cui – studi comparati alla mano – un bene in pelle dura mediamente di più del corrispondente prodotto con materiale sintetico. Idem per un maglione di lana messo a confronto con alternative vegane come il cotone, il poli-cotone e il poliestere: a livello di durabilità, performa meglio la lana.

Altro tema rilevante è quello delle microplastiche rilasciate nei corsi d’acqua durante il lavaggio dei capi sintetici. E poi c’è la gestione del fine vita, che per i capi e accessori con componenti sintetiche pone qualche problemino. Non fanno eccezione alternative a base vegetale della pelle come Piñatex, o Mylo, prodotti rispettivamente da scarti dell’ananas e da funghi: entrambi presentano delle componenti sintetiche e non sono dunque completamente biodegradabili. Il che, tuttavia, è vero anche per certa pelle di origine animale, la cui biodegradabilità dipende dal processo di concia adottato per trattarla.

Quali conclusioni trarre?

Con tante variabili di cui tenere conto, alla fine non vince nessuno, perché non esiste un’opzione in assoluto migliore. La questione è soprattutto culturale e coinvolge tutti gli stakeholder del sistema, compresi i consumatori che possono spingere in una direzione o nell’altra con le loro scelte d’acquisto.

Come per molti aspetti di sostenibilità, semplificare rischia di essere solo un aiuto al greenwashing. E il confronto fra prodotti con caratteristiche vegane e prodotti a ridotto impatto ambientale non fa eccezione”, spiega Giovanni Graziani, Consulente Process Factory specializzato in Environmental Footprint e LCA Analyses. “Dobbiamo considerare tutte le variabili della sostenibilità per tendere a prodotti idealmente in grado di raccontare la propria storia, dando evidenza di informazioni sulla catena di fornitura, i modelli di produzione, le materie prime, l’uso della chimica, l’attenzione alle persone…”.

L’obiettivo più sensato è lavorare insieme per rendere sostenibili tutti i materiali e tutti i prodotti, vegani e non vegani. A quel punto, usare capi e accessori di origine animale o meno sarà davvero una scelta etica personale.

Pensiamo a un prodotto composto da materie prime sì di origine animale, ma provenienti da filiera di recupero”, prosegue Giovanni. “Non potremmo considerare questo approccio sia sostenibile che etico? Chiaro che bisogna poter contare su strumenti di lavoro credibili in grado di gestire la complessità. Come il framework 4sustainability®, fra gli altri”.